La coscienza è ciò che rende veramente ostico il problema del rapporto fra la mente e il corpo. Forse è per questo che quando oggi si discute di questo problema si presta scarsa attenzione alla coscienza o la si affronta in modo palesemente sbagliato. La recente ondata di euforia riduzionista ha dato luogo a parecchie analisi dei fenomeni mentali e dei concetti della mente, miranti a spiegare la possibilità di certe forme di materialismo, di identificazione psicofisica o di riduzione. Ma i problemi affrontati sono quelli comuni a questo e ad altri tipi di riduzione, mentre viene ignorato ciò che rende il problema mente-corpo unico e diverso dal problema acqua-H20, o dal problema macchina di Turing-macchina IBM, o dal problema fulmine-scarica elettrica, o dal problema gene-DNA, o dal problema quercia-idrocarburo.
Ciascun riduzionista ha la sua analogia preferita nella scienza moderna. È assai improbabile che qualcuno di questi esempi incorrelati di riduzione ben riuscita possa far luce sul rapporto tra mente e cervello. Ma i filosofi, come gli altri uomini, hanno la debolezza di voler spiegare ciò che è incomprensibile in termini che vanno bene per ciò che è familiare e ben compreso, benché totalmente diverso. Ciò ha portato ad accettare descrizioni nient’affatto plausibili del mentale, sostanzialmente perché esse consentono riduzioni di genere consueto. Cercherò di spiegare perché gli esempi addotti comunemente non ci aiutino a capire il rapporto tra mente e corpo; perché, anzi, a tutt’oggi non abbiamo la minima idea di come potrebbe essere una spiegazione della natura fisica di un fenomeno mentale. Senza la coscienza il problema mente-corpo sarebbe molto meno nteressante; con la coscienza esso appare senza speranza di soluzione.L’aspetto più importante e caratteristico dei fenomeni mentali coscienti è pochissimo compreso; le teorie riduzioniste per lo più non cercano nemmeno di spiegarlo e un esame accurato dimostrerà che nessuno dei concetti di riduzione attualmente disponibili è applicabile a esso. Forse a questo scopo si può escogitare una nuova forma teorica di riduzione, ma questa soluzione, se esiste, si trova in un futuro intellettuale ancora lontano.
L’esperienza cosciente è un fenomeno ampiamente diffuso: è presente a molti livelli della vita animale, anche se non possiamo essere certi della sua presenza negli organismi più semplici ed è molto difficile in generale dire che cosa ne dimostri l’esistenza. (Alcuni estremisti sono giunti a negarla perfino nei mammiferi diversi dall’uomo). Essa si manifesta certo in innumerevoli forme, per noi del tutto inimmaginabili, su altri pianeti di altri sistemi solari nell’universo. Ma comunque possa variarne la forma, il fatto che un organismo abbia un’esperienza cosciente significa, fondamentalmente, che a essere quell’organismo si prova qualcosa. Vi possono essere altre implicazioni riguardanti la forma dell’esperienza; vi possono forse anche essere (benché io ne dubiti) implicazioni riguardanti il comportamento dell’organismo; ma fondamentalmente un organismo possiede stati mentali coscienti se e solo se si prova qualcosa a essere quell’organismo: se l’organismo prova qualcosa a essere quello che è. Possiamo parlare a questo proposito di carattere soggettivo dell’esperienza. Nessuna delle analisi riduttive del mentale recenti e più conosciute ne dà conto, perché esse sono tutte logicamente compatibili con la sua assenza. Il carattere soggettivo dell’esperienza non è analizzabile nei termini di alcun sistema esplicativo di stati funzionali o di stati intenzionali, poiché questi stati potrebbero essere attribuiti a robot o ad automi che si comportassero come persone anche senza avere alcuna esperienza soggettiva. Esso non è analizzabile in termini del ruolo causale dell’esperienza soggettiva in relazione al comportamento umano tipico, e ciò per ragioni analoghe. Non nego che gli stati e gli eventi mentali coscienti causino il comportamento o che di essi si possa dare una caratterizzazione funzionale; nego soltanto che con l’aver stabilito una cosa del genere la loro analisi debba considerarsi conclusa. Qualsiasi programma riduzionista deve essere basato su un’analisi di ciò che si deve ridurre. Se l’analisi lascia fuori qualcosa, il problema è posto in modo falso. È inutile basare la difesa del materialismo su un’analisi dei fenomeni mentali che non tenga conto esplicitamente del loro carattere soggettivo, poiché non vi è alcuna ragione per supporre che una riduzione che paia plausibile quando non si faccia alcun tentativo per spiegare la coscienza possa essere estesa fino a includere la coscienza. Pertanto, se non si possiede alcuna idea di che cosa sia il carattere soggettivo dell’esperienza, non si può sapere che cosa si debba richiedere a una teoria fisicalista Benché una descrizione delle basi fisiche della mente debba spiegare molte cose, questa sembra essere la più difficile. È impossibile escludere da una riduzione gli aspetti fenomenologici dell’esperienza allo stesso modo in cui si escludono gli aspetti fenomenici di una sostanza ordinaria da una sua riduzione fisica o chimica, cioè spiegandoli come effetti sulla mente degli osservatori umani (cfr. Rorty, 1965). Se vogliamo difendere il fisicalismo, dobbiamo trovare una spiegazione fisica anche per gli aspetti fenomenologici. Tuttavia, quando si esamina il loro carattere soggettivo sembra che sia impossibile riuscirci. La ragione è che ogni fenomeno soggettivo è sostanzialmente legato a un singolo punto di vista e pare inevitabile che una teoria oggettiva e fisica debba abbandonare quel punto di vista. Voglio prima di tutto cercare di enunciare il problema in modo alquanto più preciso e completo di quanto si possa fare riferendosi semplicemente al rapporto fra il soggettivo e l’oggettivo, o fra il pour soi e l’en soi. Ciò non è affatto facile. I fatti relativi a ciò che si prova a essere un dato X sono molto peculiari, tanto peculiari che alcuni possono essere inclini a dubitare della loro realtà o a chiedersi se abbia senso sostenere qualche tesi su di essi. Per illustrare il legame tra la soggettività e un particolare punto di vista e per mettere in luce l’importanza degli aspetti soggettivi, sarà utile indagare sulla questione riferendoci a un esempio che mette chiaramente in risalto la divergenza tra i due tipi di concezione, quella soggettiva e quella oggettiva. Do per scontato che tutti siamo convinti che i pipistrelli abbiano esperienze soggettive: in fin dei conti sono mammiferi, e il fatto che abbiano esperienze soggettive non è più dubbio del fatto che le abbiano i topi, i piccioni o le balene. Ho scelto i pipistrelli anziché le vespe o le sogliole perché via via che si scende lungo l’albero filogenetico si è sempre meno disposti a credere che siano possibili esperienze soggettive.
Benché siano più affini a noi che le altre specie sopra ricordate, i pipistrelli presentano tuttavia una gamma di attività e organi di senso così diversi dai nostri che il problema che voglio impostare ne risulta illuminato vividamente (per quanto naturalmente lo si possa porre anche per altre specie). Anche senza il beneficio della riflessione filosofica, chiunque sia stato per qualche tempo in uno spazio chiuso in compagnia di un pipistrello innervosito sa che cosa voglia dire imbattersi in una forma di vita fondamentalmente aliena.
Ho detto che la convinzione che i pipistrelli abbiano un’esperienza soggettiva consiste essenzialmente nel credere che a essere un pipistrello si prova qualcosa. Ora, noi sappiamo che la maggior parte dei pipistrelli (i microchirotteri, per la precisione) percepisce il mondo esterno principalmente mediante il sonar, o ecorilevamento: essi percepiscono le riflessioni delle proprie strida rapide, finemente modulate e ad alta frequenza (ultrasuoni) rimandate dagli oggetti situati entro un certo raggio. Il loro cervello è strutturato in modo da correlare gli impulsi uscenti con gli echi che ne risultano, e l’informazione così acquisita permette loro di valutare le distanze, le dimensioni, le forme, i movimenti e le strutture con una precisione paragonabile a quella che noi raggiungiamo con la vista. Ma il sonar del pipistrello, benché sia evidentemente una forma di percezione, non assomiglia nel modo di funzionare a nessuno dei nostri sensi e non vi è alcun motivo per supporre che esso sia soggettivamente simile a qualcosa che noi possiamo sperimentare o immaginare. Ciò, a quanto pare, rende difficile capire che cosa si provi a essere un pipistrello. Dobbiamo vedere se esiste qualche metodo che ci permetta di estrapolare la vita interiore del pipistrello a partire dalla nostra situazione e, in caso contrario, quali metodi alternativi vi siano per raggiungere il nostro scopo.
È la nostra esperienza che fornisce il materiale di base alla nostra immaginazione, la quale è perciò limitata. Non serve cercare di immaginare di avere sulle braccia un’ampia membrana che ci consente di svolazzare qua e là all’alba e al tramonto per acchiappare insetti con la bocca; di avere una vista molto debole e di percepire il mondo circostante mediante un sistema di segnali sonori ad alta frequenza riflessi dalle cose; e di passare la giornata appesi per i piedi, a testa in giù, in una soffitta. Se anche riesco a immaginarmi tutto ciò (e non mi è molto facile), ne ricavo
solo che cosa proverei io a comportarmi come un pipistrello. Ma non è questo il problema: io voglio sapere che cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo, mi trovo ingabbiato entro le risorse della mia mente, e queste risorse non sono all’altezza dell’impresa.
Non riesco a uscirne né immaginando di aggiungere qualcosa alla mia esperienza attuale, né immaginando di sottrarle via via dei segmenti, né immaginando di compiere una qualche combinazione di aggiunte, sottrazioni e modifiche.
Anche se mi fosse possibile avere l’aspetto e il comportamento di una vespa o di un pipistrello, senza però mutare la mia struttura fondamentale, anche in questo caso le mie esperienze non sarebbero affatto simili alle esperienze di questi animali. D’altra parte, non ha probabilmente senso supporre che io possa arrivare a possedere la costituzione neurofisiologica interna di un pipistrello. Anche se potessi trasformarmi gradualmente in un pipistrello, nulla della mia costituzione attuale mi consente di immaginare quali sarebbero le esperienze di questo mio stato futuro dopo la metamorfosi. Le indicazioni migliori verrebbero dalle esperienze dei pipistrelli, se solo sapessimo come sono.
Se quindi per farsi un’idea di che cosa si provi a essere un pipistrello ci si basa su un’estrapolazione dalla nostra situazione, questa estrapolazione è destinata a restare incompleta. Possiamo costruirci tuttalpiù una concezione schematica di che cosa si prova; per esempio, possiamo ascrivere tipi generali di esperienza soggettiva sulla base della struttura e del comportamento dell’animale. Descriviamo così il sonar dei pipistrelli come una forma di percezione tridimensionale in avanti; crediamo che i pipistrelli sentano una qualche forma di dolore, paura, fame e concupiscenza e che, oltre al sonar, posseggano altri tipi di percezione a noi più familiari. Tuttavia siamo anche convinti che queste esperienze hanno in ciascun caso un carattere soggettivo specifico e che concepirlo supera le nostre capacità. E se altrove nell’universo esiste vita cosciente, è probabile che in certi casi essa non sia descrivibile neppure nei più generali termini esperenziali a nostra disposizione. (Il problema, tuttavia, non è limitato ai casi estremi: esso esiste anche fra una persona e l’altra: il carattere soggettivo dell’esperienza di una persona sorda e cieca dalla nascita, per esempio, non mi è accessibile, così come presumibilmente a lei non è accessibile il carattere soggettivo della mia esperienza. Questo non impedisce a ciascuno di noi di credere che l’esperienza dell’altro possegga questo carattere soggettivo).
Chi fosse incline a negare che si possa credere nell’esistenza di fatti come questo, la cui natura esatta non abbiamo modo di concepire, rifletta che nell’osservare i pipistrelli noi ci troviamo in una posizione quasi identica a quella in cui si troverebbero un pipistrello intelligente o un marziano che tentassero di farsi un’idea di che cosa si provi a essere noi.
La struttura della loro mente potrebbe impedir loro di riuscirci, ma noi sappiamo che avrebbero torto a concludere che non si prova nulla di preciso a essere noi, che a noi possono essere ascritti solo certi tipi generali di stati mentali (forse la percezione e l’appetito sarebbero concetti comuni a noi e a loro; o forse no). Sappiamo che avrebbero torto a trarre una conclusione così scettica, perché noi sappiamo che cosa si prova a essere noi. E sappiamo che, per quanto ciò comprenda una varietà e una complessità grandissime e per quanto noi non possediamo la terminologia capace di darne una descrizione sufficiente, il suo carattere soggettivo è altamente specifico e, sotto certi aspetti, è descrivibile in termini che possono essere capiti solo da creature come noi. Il fatto che non possiamo sperare di riuscire mai a fornire col nostro linguaggio una descrizione particolareggiata della fenomenologia dei marziani o dei pipistrelli non dovrebbe indurci a considerare priva di senso l’ipotesi che i pipistrelli e i marziani abbiano esperienze affatto paragonabili alle nostre per ricchezza di particolari. Sarebbe bello se qualcuno riuscisse a elaborare un insieme di concetti e una teoria che ci consentissero di riflettere su queste cose; ma i limiti della nostra natura ci impediscono, forse per sempre, una tale comprensione. E negare la realtà o la portata logica di ciò che non potremo mai descrivere o comprendere è la forma più rozza di dissonanza cognitiva.
Questo ci porta a sfiorare un argomento che richiede una discussione molto più ampia di quella che mi è consentita qui: cioè il rapporto tra i fatti da una parte e gli schemi concettuali o i sistemi di rappresentazione dall’altra. La mia posizione realistica nei confronti del dominio della soggettività in tutte le sue forme implica che io credo nell’esistenza di fatti che travalicano la portata dei concetti umani. È certamente possibile per un essere umano credere che vi siano dei fatti per rappresentare o comprendere i quali gli uomini non possederanno mai i concetti necessari. Sarebbe anzi assurdo dubitarne, vista la finitezza delle aspettazioni umane. In fin dei conti, i numeri transfiniti sarebbero esistiti lo stesso anche se tutti gli uomini fossero stati tolti di mezzo dalla peste bubbonica prima della scoperta di Cantar. Ma si può anche credere che vi siano dei fatti che non potrebbero mai essere rappresentati o compresi dagli esseri umani, anche se la nostra specie durasse per sempre, semplicemente perché la nostra struttura non ci permette di operare con i concetti del tipo necessario. Questa impossibilità potrebbe essere addirittura osservata da altri esseri, ma non è detto che l’esistenza di tali esseri, o la possibilità della loro esistenza, sia una condizione affinché l’ipotesi che vi siano fatti inaccessibili agli uomini abbia senso. (Dopotutto, la natura di esseri aventi accesso a fatti inaccessibili agli uomini è presumibilmente anch’essa un fatto inaccessibile agli uomini).
Riflettendo su ciò che si prova a essere un pipistrello si arriva dunque, a quanto pare, alla conclusione che esistono fatti che non consistono nella verità di proposizioni esprimibili con linguaggio umano. Possiamo essere costretti a riconoscere l’esistenza di tali fatti senza essere in grado di enunciarli o di comprenderli.
Tuttavia interromperò qui la discussione di questo argomento. La sua rilevanza per il problema che ci sta di fronte (cioè per il problema mentecorpo) sta nel fatto che esso ci consente di fare un’osservazione generale sul carattere soggettivo dell’esperienza. Qualunque sia la natura dei fatti relativi a ciò che si prova a essere un uomo o un pipistrello o un marziano, questi fatti esprimono, a quanto pare, uno specifico punto di vista.
Non mi riferisco qui alla supposta privatezza dell’esperienza per chi la compie; il punto di vista in questione non è un punto di vista accessibile a un unico individuo: è piuttosto un tipo. È spesso possibile assumere un punto di vista diverso dal proprio, sicché la comprensione di tali fatti non è limitata al proprio caso particolare. Vi è un senso in cui i fatti fenomenologici sono perfettamente oggettivi: una persona può sapere o dire quale sia la qualità dell’esperienza di un’altra persona. Essi sono soggettivi, tuttavia, nel senso che anche questa ascrizione oggettiva dell’esperienza è possibile solo a qualcuno che sia abbastanza simile all’oggetto dell’ascrizione da essere in grado di adottare il suo punto di vista, cioè di comprendere l’ascrizione in prima persona, per così dire, oltre che in terza persona. Quanto più l’altro, il soggetto dell’esperienza, è diverso da noi, tanto più difficile sarà, presumibilmente, riuscire in questa impresa. Nel caso di noi stessi, noi occupiamo il punto di vista in questione, ma se ci accostassimo alla nostra esperienza da un altro punto di vista, incontreremmo, per comprenderla nel modo giusto, la stessa difficoltà che incontreremmo se tentassimo di comprendere l’esperienza di un’altra specie senza adottare il suo punto di vista.
Ciò tocca direttamente il problema mente-corpo, poiché se i fatti dell’esperienza soggettiva – i fatti riguardanti il provare ciò che prova l’organismo che ha l’esperienza – sono accessibili da un unico punto di vista, allora è un mistero come il vero carattere delle esperienze soggettive può essere rivelato neI funzionamento fisico di quell’organismo. Quest’ultimo è un campo di fatti oggettivi per eccellenza, fatti che possono essere osservati e capiti da molti punti di vista e da individui dotati di sistemi di percezione differenti. Non esistono barriere immaginative analoghe che si oppongano all’acquisizione di conoscenze sulla neurofisiologia dei pipistrelli da parte di scienziati umani, e viceversa pipistrelli o marziani intelligenti potrebbero imparare sul cervello umano più di quanto potremo mai imparare noi.
Questo non è di per se stesso un argomento contro la riduzione. Uno scienziato marziano che non capisce la percezione visiva potrebbe capire l’arcobaleno o il fulmine o le nubi come fenomeni fisici, anche se non sarebbe mai in grado di capire i concetti umani dell’arcobaleno, deI fulmine o della nube, o il posto che queste cose occupano nel nostro mondo fenomenico. La natura oggettiva delle cose espresse da questi concetti potrebbe essere da lui colta perché, mentre i concetti sono legati a un punto di vista particolare e a una particolare fenomenologia visiva, le cose colte da quel punto di vista non lo sono: esse sono osservabili da quel punto di vista, ma sono esterne a esso; possono quindi essere capite anche da punti di vista diversi, sia da parte degli stessi organismi sia da parte di altri. Il fulmine ha un carattere oggettivo che non si esaurisce nella sua manifestazione visiva, e può essere studiato da un marziano privo della vista. Per essere precisi: esso ha un carattere Più oggettivo di quanto non si riveli nella sua manifestazione visiva. Parlando del passaggio dalla caratterizzazione soggettiva a quella oggettiva, desidero non pronunciarmi sull’esistenza o meno di un punto terminale, di una natura intrinseca compiutamente oggettiva della cosa, raggiungibile o no.
Forse è più corretto concepire l’oggettività come una direzione in cui può viaggiare il comprendere. E per comprendere un fenomeno come il fulmine è legittimo allontanarsi quanto più possibile da un punto di vista strettamente umano.
Nel caso dell’esperienza soggettiva; viceversa, il legame con un punto di vista particolare sembra molto più stretto. È difficile capire che cosa si potrebbe intendere per carattere oggettivo di un’esperienza soggettiva, a parte il modo in cui la coglie, dal suo particolare punto di vista, il soggetto che la coglie. Dopotutto, che cosa resterebbe di ciò che si prova a essere un pipistrello se si eliminasse il punto di vista del pipistrello? Ma se l’esperienza soggettiva non ha, in aggiunta al proprio carattere soggettivo, una natura oggettiva che possa essere colta da molti punti di vista diversi, come si può supporre che un marziano che investighi il mio cervello possa osservare dei processi fisici che sono i miei processi mentali (cosi come potrebbe osservare dei processi fisici che sono i fulmini), ma da un punto di vista diverso? E come, anzi, potrebbe osservarli da un altro punto di vista un fisiologo umano?
A quanto pare ci troviamo di fronte a una difficoltà di carattere generale a proposito della riduzione psicofisica. In altri campi il processo di riduzione porta nella direzione di una maggiore oggettività, porta verso una visione più precisa della reale natura delle cose. Ciò viene ottenuto mediante la riduzione della nostra dipendenza da punti di vista specifici dell’individuo o della specie nei confronti dell’oggetto d’indagine: noi lo descriviamo non nei termini delle impressioni che esso procura ai nostri sensi, bensì nei termini dei suoi effetti più generali e a proprietà rilevabili con mezzi diversi dai sensi dell’uomo. Quanto meno la nostra descrizione dipende da un punto di vista specificamente umano, tanto più essa è oggettiva. È possibile seguire questa via poiché, sebbene i concetti e le idee da noi impiegati nel riflettere sul mondo esterno provengano all’inizio da un punto di vista che coinvolge il nostro apparato percettivo, essi vengono da noi usati per riferirei a cose che stanno al di là di essi e nei confronti delle quali noi possediamo un punto di vista fenomenico.
Possiamo perciò abbandonare un punto di vista in favore di un altro, pur continuando a riflettere sulle stesse cose. L’esperienza soggettiva, tuttavia, non sembra rientrare in questo schema. Con essa l’idea di muovere dalle apparenze alla realtà non sembra aver senso. Che cosa corrisponde in questo caso alla ricerca di una comprensione più oggettiva degli stessi fenomeni, abbandonando il punto di vista soggettivo inizialmente adottato nei loro confronti in favore di un altro più oggettivo ma che riguarda la stessa cosa? Certamente appare improbabile che possiamo avvicinarci alla natura reale dell’esperienza umana abbandonando la particolarità del nostro punto di vista umano e sforzandoci di giungere a una descrizione accessibile a esseri incapaci di immaginare che cosa si provi a essere noi. Se il carattere soggettivo dell’esperienza si può comprendere compiutamente da un solo punto di vista, allora nessuno spostamento verso una maggiore oggettività, cioè nessun distacco da un punto di vista specifico, ci porterà più vicini alla natura reale del fenomeno: anzi ce ne allontanerà.
In un certo senso i germi di questa obiezione alla riducibilità dell’esperienza si possono già riscontrare in certi casi riusciti di riduzione; infatti nello scoprire che il suono è in realtà un fenomeno ondulatorio che avviene nell’aria o in altri mezzi, noi abbandoniamo un punto di vista per assumerne un altro, e il punto di vista uditivo, umano o animale, che abbandoniamo non viene ridotto. Due individui appartenenti a specie radicalmente diverse possono capire entrambi gli stessi eventi fisici in termini oggettivi, senza per questo dover capire le forme fenomeniche sotto le quali quegli eventi appaiono ai sensi degli appartenenti all’altra specie. Perciò il loro riferirsi a una realtà comune ha come condizione che i loro punti di vista più particolari non facciano parte della realtà comune che entrambi colgono. La riduzione può riuscire solo se il punto di vista proprio della specie viene eliminato da ciò che si deve ridurre.
Tuttavia, mentre è giusto mettere da parte questo punto di vista quando si ricerca una comprensione più piena del mondo esterno, non lo si può ignorare in modo permanente, dato che esso costituisce l’essenza del mondo interiore e non semplicemente un punto di vista su di esso. In massima parte il neocomportamentismo della recente psicologia filosofica deriva dallo sforzo di sostituire alla mente reale un concetto oggettivo di mente, allo scopo di non lasciare nulla che non possa essere ridotto. Se riconosciamo che una teoria fisica della mente deve spiegare il carattere soggettivo dell’esperienza, dobbiamo ammettere che nessuna delle concezioni attuali ci dà un’indicazione su come si possa ottenere una tale spiegazione. Il problema è unico. Se i processi mentali sono davvero processi fisici, allora si prova, intrinsecamente, qualcosa nel subire certi processi fisici. Che cosa poi ciò sia, resta un mistero.
Che morale si può ricavare da queste riflessioni, e quale deve essere il passo successivo? Sarebbe un errore concludere che il fisicalismo è necessariamente falso. L’inadeguatezza delle ipotesi fisicaliste che postulano un’analisi falsamente oggettiva della mente non dimostra nulla. Sarebbe più giusto dire che il fisicalismo è una posizione che non possiamo capire perché per ora non abbiamo alcuna concezione di come esso potrebbe essere vero. Ma forse si giudicherà irragionevole considerare il possesso di una concezione del genere come una condizione per la comprensione. Dopotutto, si potrebbe dire, il significato del fisicalismo è chiaro: gli stati della mente sono stati del corpo; gli eventi mentali sono eventi fisici. Non sappiamo quali stati e quali eventi fisici essi siano, ma questo non dovrebbe impedirci di comprendere l’ipotesi. Che cosa ci potrebbe essere di più chiaro delle parole “è” e “sono”?
Ma io credo che proprio questa chiarezza che attribuiamo alla parola “è” sia ingannevole. Di solito, quando ci dicono che X è Y, noi sappiamo come si intende che ciò sia vero, ma questo dipende da uno sfondo concettuale o teorico e non è trasmesso dal solo “è”. Di “X” e “Y” sappiamo come si riferiscono alle cose e il genere di cose cui si riferiscono, e abbiamo un’idea più o meno precisa di come i due percorsi referenziali potrebbero convergere su un’unica cosa, sia essa un oggetto, una persona, un processo, un evento o altro. Ma quando i due termini dell’identificazione sono molto disparati, può non essere altrettanto chiaro come ciò possa essere vero. Potremmo non avere neppure un’idea approssimata di come i due percorsi referenziali potrebbero convergere o su che genere di cose essi potrebbero convergere; e per farci comprendere ciò, può darsi che sia necessaria un’impalcatura teorica. Senza questa impalcatura, l’identificazione sarebbe circondata da un alone di misticismo.
Questo spiega il sapore magico delle presentazioni divulgative delle scoperte scientifiche fondamentali, che vengono proclamate come proposizioni da accettare senza veramente capirle. Oggi per esempio, fin da bambini si sente dire che tutta la materia in realtà è energia. Ma nonostante tutti sappiano che cosa significa “è”, la maggior parte della gente non si farà mai un’idea di che cosa rende vera questa affermazione, perché non possiede una preparazione teorica. La situazione odierna del fisicalismo è simile a quella in cui si sarebbe trovata l’ipotesi che la materia è energia se fosse stata formulata da un filosofo presocratico. Non abbiamo la più pallida concezione di come il fisicalismo potrebbe essere vero. Per poter capire l’ipotesi che un evento mentale è un evento fisico abbiamo bisogno di capire qualcosa di più della parola “è”. Non abbiamo alcuna idea di come un termine mentale e un termine fisico potrebbero riferirsi alla stessa cosa, e le solite analogie con le identificazioni teoriche che osserviamo in altri campi non riescono a darcela. Non ci riescono perché, se interpretiamo il riferimento dei termini mentali agli eventi fisici secondo il modello solito, otteniamo o una ricomparsa degli eventi soggettivi separati come effetti attraverso i quali è assicurato il riferimento mentale agli eventi fisici, oppure una spiegazione falsa di come i termini mentali si riferiscono alle cose (ad esempio una spiegazione comportamentista causale). Può sembrare strano, ma è possibile avere una prova della verità di qualcosa che non riusciamo a comprendere realmente. Supponiamo che un tale all’oscuro della metamorfosi degli insetti rinchiuda un bruco in un recipiente sterilizzato e che, riaprendo il recipiente dopo qualche settimana, vi trovi una farfalla. Se questo tale è sicuro che il recipiente è stato sempre chiuso, ha ragione di credere che la farfalla sia, o sia stata in passato, il bruco, pur senza minimamente sapere in che senso ciò sia vero. (Una possibilità è per esempio che il bruco contenesse un minuscolo parassita alato che lo abbia divorato e sia quindi cresciuto fino a diventare la farfalla).
È concepibile che nei confronti del fisicalismo ci troviamo in una posizione analoga. Donald Davidson ha sostenuto che gli eventi mentali, se hanno cause ed effetti fisici, devono possedere una descrizione fisica. Egli ritiene che abbiamo motivo di crederlo anche se non possediamo – anzi, anche se non potessimo possedere – una teoria psicofisica generale. Il suo ragionamento è riferito agli eventi mentali intenzionali, ma io penso che abbiamo anche motivo di credere che le sensazioni sono processi fisici, pur senza essere in grado di capire come. La posizione di Davidson è che certi eventi fisici hanno proprietà mentali irriducibili, e forse una concezione che si possa formulare in questi termini è giusta. Ma nulla di cui oggi ci possiamo formare un concetto corrisponde a essa; e non abbiamo neppure alcuna idea di come sarebbe una teoria che ci consentisse di concepire una cosa del genere. Pochissimi sforzi sono stati dedicati al problema fondamentale (a proposito del quale non è assolutamente necessario parlare del cervello) se si possa attribuire significato all’ipotesi che le esperienze soggettive abbiano un qualche carattere oggettivo. In altre parole, ha senso che io mi chieda come sono realmente le mie esperienze, rispetto a come mi appaiono? Non ci è possibile avere una comprensione autentica dell’ipotesi che la loro natura possa essere rispecchiata in una descrizione fisica, se non comprendiamo l’idea più fondamentale che esse hanno una natura oggettiva (o che i processi oggettivi possono avere una natura soggettiva).
Vorrei concludere con una proposta speculativa. Può darsi che ci si possa accostare al divario tra soggettivo e oggettivo da un’altra direzione. Mettendo da parte per il momento il rapporto tra mente e cervello, possiamo cercare di raggiungere una comprensione più oggettiva del mentale di per sé. Al momento non abbiamo alcuno strumento per riflettere sul carattere soggettivo dell’esperienza senza ricorrere all’immaginazione, cioè senza assumere il punto di vista del soggetto dell’esperienza. Questo ci dovrebbe spingere a costruire concetti nuovi e a inventare un metodo nuovo, una fenomenologia oggettiva che non dipendesse dall’empatia o dall’immaginazione. Anche se presumibilmente essa non potrebbe dar conto di tutto, il suo scopo sarebbe quello di descrivere, almeno in parte, il carattere soggettivo delle esperienze in una forma che fosse comprensibile a esseri incapaci di avere quelle esperienze.
Dovremmo elaborare una fenomenologia siffatta per descrivere le esperienze sonar dei pipistrelli, ma si potrebbe anche cominciare dagli uomini: si potrebbe, per esempio, cercare di foggiare concetti che servano a spiegare a un cieco nato che cosa si prova a vedere. Prima o poi ci si troverebbe di fronte a un muro, ma dovrebbe essere possibile escogitare un metodo per esprimere in termini oggettivi molto più di quanto non possiamo esprimere oggi, e con una precisione molto maggiore. Le vaghe analogie intermodali (per esempio: “il rosso è come uno squillo di tromba”) che pullulano nelle discussioni su questo argomento servono a poco. Ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque abbia udito una tromba e visto il rosso. Ma gli aspetti strutturali della percezione potrebbero essere più accessibili a una descrizione oggettiva, anche se qualche cosa ne verrebbe lasciato fuori. E concetti diversi da quelli che noi apprendiamo in prima persona ci possono consentire di arrivare a un tipo di comprensione anche della nostra stessa esperienza che ci è impedito proprio da quella facilità di descrizione e da quell’assenza di distanza che consentono i concetti soggettivi.
A parte il suo interesse intrinseco, una fenomenologia che fosse oggettiva in questo senso consentirebbe di dare una forma più intelligibile alle domande a proposito della base fisica dell’esperienza. Gli aspetti dell’esperienza soggettiva che ammettessero questo genere di descrizione oggettiva potrebbero prestarsi meglio di altri a fornire spiegazioni oggettive di tipo più consueto. Ma indipendentemente dal fatto che questa congettura sia giusta o no, sembra improbabile che si possa formulare una qualunque teoria fisica della mente finché non si sarà riflettuto più a fondo sul problema generale della soggettività e dell’oggettività. Altrimenti non si potrà neppure porre il problema mente-corpo senza con ciò stesso eluderlo.
Tratto da: http://www.coscienza.altervista.org/